5) STRUTTURE E FUNZIONI DELL' EMISSARIO ROMANO

STRUTTURE E FUNZIONI DELL’EMISSARIO ROMANO

Alla base del progetto del prosciugamento del Fucino ci sono pochi e semplici concetti.
E’ noto che per travasare un liquido da un recipiente all’altro è necessario che tra essi ci siano:
• un dislivello;
• un collegamento.
Consideriamo allora, per comodità, il lago del Fucino come il recipiente da svuotare ed il fiume Liri come il recipiente in cui si voglia travasarne l’acqua.
Abbiamo detto che occorrono un dislivello ed un collegamento.
Ora, tra il fondo del Fucino ed il letto del Liri il dislivello c’è, ed è di circa 20 metri; invece un collegamento diretto non c’è: bisognava crearlo attraverso il monte Salviano che separa il bacino lacustre dal fiume.
Per seguire meglio il discorso bisogna fare riferimento alla figura seguente:
 

In essa sono visualizzati chiaramente i concetti e le condizioni che sono alla base del progetto romano.
Nella figura, i valori numerici delle varie quote sono rapportati tutti, per semplicità, ad una quota “zero” di riferimento pari a metri 635,68 s.l.m., fissata arbitrariamente dagli ingegneri francesi Brisse e De Rotrou che eseguirono i lavori di prosciugamento del Fucino, su commissione del Principe Torlonia, diciotto secoli dopo i romani.
Tale valore per la “quota  zero di riferimento” fu scelto perché si trovava 10 metri esatti sopra il fondo del letto del fiume Liri, che è appunto 625,68 metri sul livello del mare (slm).
Ora, in linea di principio, prosciugare il Fucino era una cosa abbastanza semplice; dal punto di vista realizzativo invece le cose si presentavano assai più difficili e complesse, soprattutto per le condizioni orografiche locali.
Infatti, innanzitutto tra il Fucino ed il Liri c’è una distanza in linea d’area di circa 5 Km, costituita da un tratto di costa del lago, poi dal massiccio calcareo del monte Salviano e poi, ancora, per un tratto piuttosto lungo dai Piani Palentini.
In queste condizioni il collegamento poteva  essere realizzato solo per un breve tratto mediante lo scavo di un canale a cielo aperto, il resto doveva essere portato a termine mediante una galleria sotterranea lunga quasi 6 Km., attraverso ogni specie di terreno, con lunghi tratti di roccia durissima da perforare e con tutta le incognite e le difficoltà relative.
Un’opera dunque difficile per sé stessa e senz’altro assai rischiosa ed audace, ai limiti delle capacità tecniche ed umane dell’epoca.
Secondariamente l’opera doveva anche rispondere a precise esigenze di sicurezza, perché occorreva che il flusso dell’acqua fosse regolabile secondo le necessità.
Allora, nel collegamento tra il Fucino ed il Liri possiamo distinguere tre parti principali:
• un tratto a cielo aperto, il canale collettore;
• un tratto in galleria, l’emissario;
• un complesso di regolazione interposto tra i primi due, l’incile.
Inteso in senso lato e letterale del termine, si dovrebbe chiamare emissario tutto il collegamento tra il lago ed il Liri; il termine deriva da emissarium ed indica un tipo di canalizzazione, a cielo aperto o in galleria, idonea a dar scolo alle acque.
Invece, con significato più specifico e ristretto, si usa chiamare emissario, propriamente la galleria realizzata sotto il monte Salviano e sotto i Piani Palentini.
Invece, l’incile è il complesso di costruzioni e bacini di servizio, con congegni per la regolazione delle acque; anche questo termine è di derivazione latina, incile, che significa “incisione”, “fessura”.
Qui, nel caso del Fucino, viene universalmente usato per indicare delle opere costruite immediatamente prima della galleria sotterranea; fossa incilis vuol dire “fossa di scarico o scolo”.
Chiamiamo canale collettore, o più semplicemente collettore, il canale a cielo aperto che preleva le acque del lago e le convoglia verso l’incile.
Il termine deriva da colligere ed indica anche esso un tipo di canalizzazione, ma con il significato più specifico di “raccogliere”, “convogliare”.
Qui è opportuno fare subito un’importante precisazione: il lago del Fucino, pur essendo uno dei più grandi laghi italiani, era anche uno dei meno profondi!
Ad una superficie media di oltre 140 Km quadrati, corrispondeva una profondità media di circa 15 metri, notevolmente variabile nel tempo.

Se ora consideriamo di nuovo il Fucino come un recipiente da vuotare, è chiaro che, facendo corrispondere l’inizio del canale collettore con la stessa quota del fondo del lago, l’acqua potrà                                                                                                                                                     essere fatta evacuare completamente; ponendolo, invece, ad una quota intermedia tra la superficie dell’acqua ed il fondo, sarà possibile far scolare solo l’acqua soprastante  tale quota, mentre quella sottostante sarà necessariamente costretta a restare all’interno del bacino lacustre.
Nella Figura si distinguono chiaramente la parte evacuabile e la parte “residua” del lago.
Risulta evidente, quindi, che la possibilità di prosciugare il lago totalmente, o solo parzialmente,  dipende strettamente dall’altezza della quota scelta per l’inizio dell’emissario e, più precisamente, per il punto di derivazione del canale collettore dal bacino del lago; questo è un concetto fondamentale per comprendere lo scopo del progetto di Claudio.
Purtroppo quello che possiamo dire oggi dell’opera romana non può prescindere dall’uso del condizionale e da ipotesi più o meno attendibili, dal momento che i “pezzi” più importanti dell’intera struttura – vale a dire l’incile ed il suo canale collettore – non esistono più, essendo stati deliberatamente demoliti nel secolo scorso dagli ingegneri francesi Brisse e De Rotrou che progettarono e portarono a termine il “secondo prosciugamento del Fucino”, finanziato dal Principe Torlonia.
Così, con un comportamento che, con un eufemismo, potremmo definire incivile e barbaro, smantellarono quasi tutto ciò che restava delle parti più importanti dell’opera romana; non solo sventrando ed allargando l’antica galleria di Claudio, ma distruggendo anche parti che non avrebbero intralciato affatto i nuovi lavori, come l’intera struttura dell’incile ed il canale collettore romano che, tra l’altro, aveva un tracciato completamente diverso da quello moderno.
Come magra “consolazione” della loro opera devastatrice ci hanno comunque lasciato disegni, mappe, schemi e misurazioni tecniche che oggi ci permettono almeno di capire come era strutturato l’intero progetto romano.
Come abbiamo già visto, questo si componeva di tre parti collegate fra loro: un canale collettore, l’incile e la galleria emissaria.
Ora analizzeremo separatamente le tre componenti del progetto di Claudio.


L’INCILE
Per descrivere la prima disposizione delle strutture dell’incile secondo il progetto originario di Claudio al momento dell’inaugurazione solenne dell’emissario nel 52 d.C., si tengano presenti le Figure 5 e 6, che lo rappresentano in pianta ed in sezione longitudinale.
Le acque provenienti dal lago e convogliate dal canale collettore, arrivate all’incile, incontravano per primo un avambacino ad imbuto, costituito da due muraglioni laterali, rettilinei e convergenti, che servivano semplicemente a trattenere il terreno circostante che era ad un livello più elevato di circa 10 metri.
Il suo fondo era a quota 16,57 m., rispetto alla “quota 0 di riferimento” (Q.0 R.) della Figura.
Al punto più ristretto dell’avambacino, c’era la prima saracinesca che serviva a regolare o a bloccare il flusso dell’acqua in arrivo dal lago.
Seguiva, quindi, un breve e profondo passaggio, la gola: era stretta 3 metri, lunga 8 e profonda 10,5.
Essa era destinata alla manovra della prima saracinesca e conteneva alcune griglie per trattenere i detriti più grossi trascinati dalla corrente dell’acqua.
La gola comunicava poi con un’ampia vasca esagonale, così denominata per la sua forma geometrica in pianta.
Essa aveva il fondo a m. 16,57 rispetto alla Q.0 R.  e doveva servire, oltre che come bacino di espansione e rallentamento per la corrente d’acqua, anche per la decantazione, la raccolta e la rimozione dei vari detriti che fossero riusciti a passare fin lì .
Il suo fondo era reso accessibile mediante delle gradinate poste lungo i muraglioni laterali, vicino all’ingresso della vasca, ed era comunque facilmente svuotabile dell’acqua, mediante la chiusura della prima saracinesca.
La vasca esagonale terminava in fondo con un muraglione, il quale aveva in basso, verso il centro, un’apertura con una seconda saracinesca, regolabile da una camera di manovra posta immediatamente sopra di essa.

L’acqua proveniente dal lago, superata questa seconda saracinesca, cadeva in una seconda vasca, più piccola della precedente, ma più profonda, detta vasca trapezoidale dalla sua effettiva forma geometrica in pianta.
Essa aveva il fondo alla quota di 11,09 metri, quindi presentava  un dislivello di 5,48 m.  in basso rispetto al fondo della vasca esagonale.
La parete di fondo della vasca trapezoidale, addossata al pendio del monte Salviano, costituiva la testata della galleria emissaria

In essa si distinguevano due parti nettamente distinte.
Nella parte inferiore si apriva l’imbocco della galleria emissaria, il cui piano si trovava allo stesso livello del fondo della vasca trapezoidale, cioè a quota 11,09 m.
L’imbocco della galleria era servito da una terza saracinesca, regolabile da una camera di manovra soprastante.
Un’apposita scala di servizio permetteva l’accesso all’interno della galleria per eventuali ispezioni ed interventi di manutenzione, una volta bloccato il flusso dell’acqua mediante la terza saracinesca.
Invece la sua parte superiore comprendeva diversi locali di servizio ripartiti su due piani: nel piano inferiore c’era la camera di manovra per la terza saracinesca; nel piano superiore si trovava la sala di controllo ed il posto di guardia; i due piani si presentavano con logge a tre arcate.
Era quello infatti  il punto più adatto per tenere sotto controllo il funzionamento di tutto l’impianto.
Da lì si poteva osservare il salto dell’acqua dalla vasca esagonale a quella trapezoidale, la portata dell’acqua in transito, il passaggio di eventuali detriti che avrebbero potuto ostruire la galleria sotterranea; sempre da lì si poteva anche bloccare immediatamente, all’occorrenza, l’ingresso della galleria mediante la sottostante saracinesca.
Le dimensioni dell’incile erano di 65 metri in lunghezza e di circa 40 metri in larghezza, a livello della vasca esagonale.
C’è una cosa da sottolineare: in tutto il complesso dell’incile, la quota più elevata che doveva essere superata dalle acque prima di immettersi nella galleria sotterranea, era quella del fondo della vasca esagonale, posta a m. 16,57 sopra la Q.0 R..


• LA GALLERIA
La tecnica seguita dai progettisti e dai costruttori romani per la realizzazione della galleria emissaria fu molto semplice e, nello stesso tempo, geniale.
Innanzitutto, invece di seguire un tracciato unico e rettilineo, scelsero un tracciato suddiviso in tre tratti, raccordati ad angoli molto ottusi, allo scopo di evitare gli attraversamenti di zone rocciose che avrebbero richiesto un maggior impiego di risorse umane e, quindi, tempi di esecuzione molto più lunghi.
Poi, una volta riportato sul terreno il tracciato della galleria, lungo tale tracciato scavarono numerosi pozzi verticali, distanti tra loro circa 400 metri e profondi sino alla quota calcolata per la costruzione del tunnel sotterraneo.
La loro profondità variava così tra gli 80 ed i 120 metri  circa nel tratto sotto i Piani Palentini, riducendosi a poco più di 20 metri nel tratto tra le pendici del monte Salviano e l’incile.
Tutti questi pozzi, scavati verticalmente con una sezione quadrata di 4,30 m. di lato, servivano principalmente all’aerazione, al sollevamento dei materiali di scavo, all’introduzione di quelli di rivestimento ed all’attacco della galleria che avveniva contemporaneamente sui due fronti opposti di ciascun pozzo, verso monte e verso valle, secondo l’andamento del tracciato esterno sul terreno,  riportato poi in profondità con l’impiego di fili a piombo.
In relazione alla qualità del terreno attraversato, questi pozzi o non erano armati affatto, o lo erano in parte, fino a giungere in molti casi ad un completo rivestimento murario delle pareti , sia in laterizio, sia in opus reticulatum, come è stato riscontrato principalmente nel tratto compreso tra il monte Salviano ed il Fucino, con lo scopo evidente di contrastare le forti infiltrazioni d’acqua, che la vicinanza del lago doveva produrre.
Sempre per favorire l’aerazione del tunnel sotterraneo furono costruite delle gallerie inclinate sussidiarie, o cunicoli, in numero maggiore rispetto ai pozzi verticali di servizio e con proporzioni e disposizioni diverse, secondo l’uso cui erano destinati.
Nei Piani Palentini i cunicoli inclinati partivano dal suolo, per incontrare in un dato punto i pozzi verticali che venivano così aerati; altre volte i cunicoli si prolungavano fino a raggiungere la galleria con lo scopo evidente di facilitare nuovi punti di attacco, come anche per rendere possibile l’accesso alla galleria principale, indipendentemente dai pozzi verticali, dato che la lentezza e la scarsa potenza degli apparecchi di sollevamento non consentivano agli operai addetti al lavoro sotterraneo una rapida e facile comunicazione con l’esterno.
Ma il problema dell’avanzamento della galleria e dell’aerazione si presentava particolarmente difficile nell’attraversamento del massiccio calcareo del monte Salviano.
Per l’impossibilità di aprirvi dei pozzi verticali, data la grande altezza del monte, i cunicoli inclinati che vi corrispondevano, oltre al solito scopo di assicurare aria respirabile agli operai addetti ai lavori di perforazione, furono adibiti al transito di materiali di sterro ed a quelli necessari per il rivestimento della galleria.
Infatti, nella parte più alta e ripida del monte Salviano, fra l’ultimo pozzo verticale aperto alle sue falde nel versante dei Piani Palentini ed il primo pozzo del versante opposto, vi era una distanza di 890 metri; se si fossero dovuti aprire nel calcare compatto che costituisce il monte, dei pozzi verticali, questi avrebbero dovuto avere un’altezza variabile fra i 150 ed i 300 metri; inoltre la loro imboccatura sarebbe risultata inaccessibile, data la estrema pendenza del terreno.
I progettisti romani riuscirono comunque a superare questo grave ostacolo, rappresentato dagli 890 metri di galleria senza pozzi di aerazione, costruendo sullo stesso piano verticale, uno sopra l’altro, fino a 2 o 3 ordini di cunicoli di servizio che, partendo dai due versanti opposti della montagna, convergevano andando a raggiungere, sotto diverse inclinazioni, il piano profondo della galleria emissaria; il tutto è ben evidenziato nella Figura seguente.
A questi cunicoli di servizio fu data, in montagna, una sezione maggiore di quella che avevano nei Piani Palentini, per meglio utilizzarli nella circolazione dei veicoli necessari al trasporto dei materiali; a questo scopo furono di tratto in tratto incavati nelle pareti dei piccoli posti per lo smistamento delle carriole che salivano con quelle che discendevano.
Altri cunicoli di minor dimensione assicuravano la ventilazione collegandosi a quelli più grandi, destinati alle comunicazioni, e direttamente alla galleria dell’emissario.
Per aumentare l’afflusso di aria respirabile i romani usavano accendere all’interno della galleria, in corrispondenza dei pozzi, dei fuochi che, grazie “all’effetto camino”, aspiravano aria dall’esterno verso il tunnel sotterraneo.

Alla fine, la lunghezza di tutti questi pozzi verticali e cunicoli di servizio sarebbe risultata doppia rispetto alla lunghezza effettiva della galleria sotterranea.
Indubbiamente l’emissario di Claudio rappresenta una delle più straordinarie costruzioni dell’antichità romana, soprattutto per la mole dei lavori sotterranei, tanto che Brisse, uno degli ingegneri francesi che portarono a termine il “progetto Torlonia”, scrisse che “durante i lavori moderni essa fu oggetto di stupore ed ammirazione anche da parte dei vecchi minatori belgi, sorpresi da un’opera così audace”.
La lunghezza totale della galleria romana è di circa 5.643 metri, di cui ¾  scavati in una roccia durissima, il resto in argilla e sabbia, vale a dire nei terreni più pericolosi nella costruzione di gallerie sotterranee.
Era la più lunga galleria sotterranea del mondo antico!
Lo sviluppo totale dell’opera  di scavo, compresi i pozzi ed i cunicoli di servizio, risultò alla fine di 17 Km., di cui tutta la parte in roccia fu scavata con il solo uso di mazze, zeppe di ferro e scalpelli.
La manovra degli argani, che servivano al sollevamento dei materiali di scavo ed  alla discesa di quelli di rivestimento, era fatta a braccia d’uomo.
Una preziosa testimonianza in proposito è fornita da un bassorilievo, rinvenuto presso l’incile nel 1835 dal generale Afan de Rivera che stava effettuando un tentativo di ripristino dell’emissario romano per il Regno di Napoli, e dal ritrovamento, in un cunicolo, di un secchione di ferro della capacità di 40 decimetri cubici, corrispondenti ad un carico massimo di sollevamento di 75 Kg.
Il ridotto volume dei recipienti, la grande altezza di molti pozzi e le manovre fatte a braccia d’uomo indicano un movimento lentissimo dei materiali attraverso i pozzi di servizio; ciò, d’altra parte, è in linea con l’avanzamento giornaliero dello scavo della galleria che doveva procedere assai lentamente, vista la durezza della roccia da perforare.
Minima doveva essere, quindi, la quantità di materiale estratto e minima la quantità di materiali per i lavori interni.
I materiali d’estrazione venivano quindi caricati  su grosse chiatte e rovesciati nel centro del lago.
Passando alla descrizione della galleria sotterranea, vediamo che i due elementi caratteristici sono le sue quote estreme, rilevabili agevolmente nella Figura precedente.
Dalla figura si vede bene che, al suo sbocco sul Liri, l’uscita si trova a metri 2,64 sopra la Q.0 R., rispetto alla quale però il letto del fiume si trova a sua volta 10 metri più in basso, sicché di fatto l’uscita della galleria risulta 12,64 metri più in alto rispetto al letto del fiume Liri.
All’altro capo, cioè all’imbocco dal lato del Fucino, l’inizio della galleria si trova a 11,09 metri sopra la Q.0 R., cioè allo stesso livello del fondo della vasca trapezoidale.
Abbiamo così tra i due capi estremi della galleria un dislivello di metri 8,45 che, rapportato alla lunghezza della galleria (5.643 m.), ne determina una pendenza media di circa 1,50 m./Km..
Altro elemento importante è la sezione della galleria; in verità la sezione della galleria romana non aveva una misura ed una forma costante, ma variava sensibilmente lungo tutto il suo percorso.
Come sua sezione “tipica” viene considerata quella formata da un rettangolo con base di 1,80 m. ed altezza di 2,10 m., sormontato da un semicerchio di raggio pari a 0,90 m., quindi un area di servizio di 5,05 metri quadrati; si vedano le Fig. 9 e 10 ove sono riportate a confronto la galleria romana  e quella "moderna" di Torlonia.
Però in certi punti essa si riduceva parecchio, fino ad un minimo di 3,73 metri quadrati, in una zona sotto i Piani Palentini.
Il terzo elemento notevole è la portata della galleria, vale a dire la quantità massima d’acqua che essa era in grado di lasciar passare nell’unità di tempo, cioè  in un minuto secondo.
Si è così calcolato che la portata della galleria romana, riferita alla sua sezione tipica, sarebbe stata di circa 9 metri cubici d’acqua al secondo, corrispondenti a 780.000 metri cubici al giorno
Però, in realtà, la portata  di un condotto viene determinata e limitata dalla sua sezione più piccola, poiché non vi può transitare più acqua di quanta non ne lasci passare il suo punto più ristretto; quindi la portata massima effettiva della galleria romana, riferita alla sezione minima di 3,73 metri quadrati, era in realtà di circa 7 metri cubici al secondo, vale a dire quasi 600.000 metri cubici d’acqua al giorno.
Va tenuto presente che nell’antichità la vegetazione di tutta la conca fucense doveva essere assai più rigogliosa ed estesa di quella attuale, coprendo di boschi anche gran parte delle montagne, che invece oggi appaiono come delle pietraie desolate.
In tali condizioni l’afflusso di acque al lago, da tutto il bacino imbrifero del Fucino, doveva avere un regime meno “torrentizio” ed inoltre una evaporazione maggiore.
Quindi la sezione della galleria romana, che oggi può apparire modesta rispetto a quella di Torlonia, in effetti per quell’epoca doveva essere ben dimensionata per le esigenze effettive del solo mantenimento delle acque del lago residuo.
E adesso una storia che ha dell’incredibile.
Nel 1967 il Consiglio Nazionale delle Ricerche (C.N.R.) calcolò i valori medi, mensili ed annui, della portata dell’ incile  Torlonia nel periodo 1951 – 1965; le portate medie variavano fra i 3,96 metri cubici al secondo del mese di agosto ed i 10,23 metri cubici al secondo del mese di marzo; l’andamento era crescente nei mesi di gennaio (8,37 metri cubici al secondo) e febbraio (8,81 metri cubici al secondo), culminava nel mese di marzo, decresceva gradualmente fino a luglio (4,44 metri cubici al secondo) e toccava il minimo in agosto, per risalire in modo pressoché uniforme nei mesi autunnali.
La portata media annua per il periodo considerato risultò quindi di 7,00 metri cubici al secondo: esattamente la portata della galleria di Claudio!!!

Il pavimento della galleria era sollevato al centro di circa  30 cm rispetto ai lati; questo espediente  consentiva agli addetti alla manutenzione, una volta bloccato il flusso dell’acqua mediante la chiusura della terza saracinesca, di camminare tranquillamente nella parte centrale del tunnel, mentre l’acqua residua scolava lungo le pareti laterali.
I romani, comunque, commisero degli errori di costruzione, riscontrabili sia nella direzione, sia nella pendenza della galleria; ma sono esclusivamente da attribuire ai limitati e rudimentali strumenti di calcolo di cui potevano disporre.
Un errore nella direzione della galleria fu commesso tra i pozzi n. 7 e n. 9; ma vi rimediarono egregiamente.
Infatti per raccordare i due tronchi di galleria già costruita e che non si incontravano, scavarono un nuovo pozzo intermedio, il n. 8,  e dal suo fondo partirono con due nuovi attacchi grazie ai quali ricongiunsero i due semi-tunnel fuori asse.
Un’altra di queste deviazioni dell’emissario, riscontrata tra i pozzi n. 19 e n. 20, non può imputarsi a colpa, a negligenza o ad imperizia degli esecutori perché, pur essendo la più considerevole di tutte, vale invece a confermare l’abilità e l’audacia di cui si mostrarono capaci i romani.
Questa deviazione, localizzata precisamente nel punto in cui terminava la roccia compatta del monte Salviano ed iniziava lo strato argilloso dei Piani Palentini, formava sul lato sinistro della galleria quasi un angolo retto con la direzione fisiologica; dopo essersene così allontanata fino ad una certa distanza, si riavvicinava progressivamente alla direzione naturale del tunnel descrivendo un percorso arcuato molto irregolare, per raggiungere di nuovo la galleria in un punto distante ben 132 metri da quello in cui l’aveva abbandonata.
Questa brusca deviazione fu inizialmente attribuita ad un grossolano errore dei costruttori; successivamente, durante le ispezioni per la realizzazione dell’emissario Torlonia, si scoprì che la deviazione era stata realizzata ad arte per superare una zona in cui la fragilità del terreno aveva provocato un esteso crollo della galleria già costruita, crollo che, probabilmente, si sarà verificato, come vedremo in seguito, proprio durante la cerimonia di inaugurazione dell’emissario nel 52 d.C..
Anche alcune irregolarità della pendenza, rilevate indeterminati tratti della galleria sotterranea, sono da imputare verosimilmente ad un parziale cedimento del terreno sottostante, avvenuto nel corso dei secoli e sicuramente facilitato dagli eventi sismici frequenti nella zone del Fucino.
Forse l’unico “difetto” della galleria romana era figlio dei tempi, e consisteva essenzialmente nella forma della sua sezione normale costituita, come abbiamo visto, da un rettangolo sormontato da un semicerchio; forma che non conferiva alle sue pareti laterali la resistenza necessaria per resistere alla enorme pressione dei terreni attraversati, specialmente nei tratti argillosi e con abbondanti infiltrazioni d’acqua.
Uno dei mezzi adottati dai romani per ovviare a questa enorme pressione  laterale e che tendeva a schiacciare la galleria, fu quello di ridurne l’area della sezione, nella speranza che il ridotto contorno esposto alla forza della pressione esterna, avrebbe offerto una maggior resistenza.
Infatti abbiamo visto come l’area della sezione “normale” di 5,05 m. quadrati, fu ridotta in alcuni punti del tracciato, fino a meno di 4 m. quadrati, riducendo così la portata dell’emissario a livelli “critici” per lo svuotamento del lago.
Gli strozzamenti della galleria, che anche gli autori antichi non esitarono ad attribuire al lucro, alla negligenza ed all’avidità dei costruttori, risultano essere, in definitiva, dei disperati tentativi di superare intelligentemente un difetto di tecnica costruttiva proprio del I° secolo d.C..

Unica responsabile fu perciò l’antica tecnica che ancora non prevedeva la costruzione di gallerie a sezione policentrica, come in effetti fecero gli ingegneri di Torlonia; ma 18 secoli dopo era il minimo che ci si potesse aspettare!


• IL CANALE COLLETTORE
Una volta costruita la galleria sotto il monte Salviano e le varie opere di regolazione dell’incile, per completare il collegamento tra il Fucino ed il Liri restava da costruire il canale collettore, cioè il canale “a cielo aperto” che doveva prelevare le acque dal bacino del lago e convogliarle all’incile.
Era tutto sommato la parte meno disagevole da costruire di tutto l’impianto, ma aveva anch’essa i suoi problemi, soprattutto di pendenze e di quote.

Dai disegni lasciati da Brisse e De Rotrou sappiamo che i romani adottarono per il canale collettore la pendenza dell’1/1.000; ciò significa che la quota del suo fondo si doveva innalzare gradualmente di 1 metro ogni Km. di avanzamento verso l’interno del bacino del Fucino.
Così partendo dalla vasca esagonale a quota m. 16,57, dopo un Km. il fondo del collettore doveva raggiungere quota 17,57 m. rispetto alla quota 0 di riferimento (Q.0 R.), e così di seguito.
In tal modo il punto d’incontro del canale collettore con il fondo del lago, cioè la “presa” o quota iniziale, risultava essere il punto più elevato di tutto l’emissario, inteso nel suo complesso galleria-incile-colletore.
E’ chiaro che così solo le acque poste al di sopra della quota iniziale del canale collettore potevano uscire dal bacino del lago, mentre le altre, poste al di sotto della “presa” , erano costrette fatalmente a restare al suo interno, impedendone così il prosciugamento completo.
 

Questa quota, corrispondente alla “presa” del canale collettore, viene chiamata anche quota iniziale o “quota critica” .

Riferendoci ora più direttamente al collettore, il suo punto di arrivo B corrisponde alla quota della vasca esagonale, mentre il suo punto iniziale C rappresenta la sua quota critica.
Ovviamente questa  dipende direttamente non solo dalla pendenza del collettore ma anche dalla sua lunghezza.
Infatti se il collettore fosse stato piuttosto breve, magari solo qualche centinaio di metri, la differenza di quota tra il suo inizio e la sua fine non avrebbe costituito un problema rilevante, comportando tutt’al più un dislivello di appena qualche decina di centimetri.
Invece la sua notevole lunghezza, di diversi Km., comportava un dislivello non più trascurabile, dell’ordine diversi metri, sempre sulla base della pendenza de’1/1.000 usata dai romani nel Fucino.


L’importanza della precisione nel calcolare la pendenza del collettore era dovuta al fatto che il Fucino aveva una profondità media di appena 15 metri, per cui anche l’errore di un solo metro, avrebbe comportato una notevole riduzione della fascia di terreni prosciugabili.
Abbassando invece il punto di raccordo del collettore all’incile, per esempio riducendo o eliminando del tutto il dislivello tra le due vasche, ovviamente il canale collettore avrebbe potuto raggiungere il fondo del lago in un punto più basso e distante, permettendo così il prosciugamento di una fascia di terreni più ampia.
Il canale collettore, raccordato alla quota della vasca esagonale( 16,57 m.), come prevedeva il progetto originario di Claudio, avrebbe potuto raggiungere una lunghezza di poco superiore ai 2.500 metri; raccordato invece alla quota d’imbocco della galleria sotterranea (11,09 m.), sempre con una pendenza costante dell’1/1.000, avrebbe potuto raggiungere una lunghezza di circa 6.200 metri, permettendo il prosciugamento di una fascia di terreni altrettanto ampia.
In realtà però la lunghezza massima raggiunta dal collettore romano, dopo le modifiche apportate dall’Imperatore Adriano e di cui parleremo in seguito, fu di 4.500 metri.
Durante l’inaugurazione solenne dell’emissario, nel 52 d.C., verosimilmente il collettore non era ancora arrivato alla sua “quota critica” perché questo avrebbe richiesto ancora tempi piuttosto lunghi di costruzione e, quindi, incompatibili con la “fretta” di Claudio di procedere con i festeggiamenti per il compimento della “sua” opera.
E’ chiaro perciò che, finché non fosse stata portata a termine la realizzazione del canale collettore, la quota del fondo della vasca esagonale non poteva avere nessuna influenza ne determinare quale sarebbe stato il nuovo livello del lago e, quindi, quanta acqua sarebbe potuta uscirne e quanta ve ne sarebbe rimasta dentro.
Perciò, prima di quel momento, l’unico vero responsabile, come ostacolo o limitazione all’uscita dell’acqua del lago, restava il canale collettore con la sua quota critica.
Soltanto dopo, con la costruzione definitiva del collettore, la vasca esagonale avrebbe costituito un limite reale e diretto ad un ulteriore abbassamento delle acque del lago; per ottenere una cosa del genere si sarebbe dovuto o abbassarla o eliminarla del tutto, come poi in realtà avvenne con l’intervento di Adriano; ma non certo prima, all’epoca dell’inaugurazione dell’emissario.

UNDICI ANNI DI SCAVI

La direzione generale dei lavori per la costruzione dell’emissario del Fucino, fu affidata da Claudio a Narciso, potente e fidato liberto dell’Imperatore, forse egli stesso di origine marsa.
I lavori iniziarono entro la fine dell’anno 41 d.C. e si protrassero per undici anni, con l’impiego di ben 30.000 uomini, di cui 11.000 schiavi e 19.000 operai liberi.
La maggior parte del tempo occorse, verosimilmente, per la realizzazione dei 5.640 metri della galleria sotterranea, scavata tra il lago del Fucino ed il fiume Liri nelle viscere della terra, attraverso il massiccio calcareo del monte Salviano, ad oltre 100 metri di profondità.
Plinio il Vecchio, che fu testimone oculare della cerimonia d’inaugurazione dell’emissario nell’anno 52 d.C., scrive con ammirazione:
“Eiusdem Claudi inter maxime memoranda equidem duxerim, quamvis destitutum successoris odio, montem perfossum ad lacum Fucinum emittendum inenarrabili profecto impendio et operarum multitudine per tot annos, cum aut conrivatio aquarum qua terrenus mons erat egereretur in verticem machinis, aut silex caedetur, omniaque intus in tenebris fierent quae neque concipi animo nisi ab iis qui videre neque enarrari humano sermone possunt”.
“ Tra le opere più altamente memorabili di Claudio, dovrei innanzitutto citare – sebbene lasciato in abbandono a causa dell’odio del suo successore – il traforo della montagna per la costruzione di un emissario per il lago Fucino, (realizzato) in verità con spese immense e con un’enorme quantità di lavori per tanti anni, essendosi dovuto o smaltire in alto per mezzo di macchine le infiltrazioni d’acqua dove la montagna è permeabile, o tagliare la viva roccia: tutti lavori eseguiti sotto terra, nelle tenebre, i quali non possono essere immaginati se non da quelli che li hanno visti, né possono essere descritti con parole umane”. (PLINIO IL VECCHIO; NATURALIS HISTORIA; XXXIII, 24, 124).
Anche i due ingegneri francesi del Principe Torlonia, Brisse e De Rotrou, ebbero parole di ammirazione per quello che erano riusciti a fare i romani 1.800 anni prima:
“A mala pena si comprende come i romani, a tanta profondità, con l’aiuto del solo scalpello, osarono attaccare un massiccio montuoso come il Salviano, ed aprirvi una sì lunga galleria in un calcare così duro e come abbiano avuto l’audacia d’impegnar la lotta con una massa d’acqua così considerevole e come, infine, con tanto deboli mezzi d’azione, abbiano potuto vincere tali difficoltà che, ai nostri giorni ancora, esigono gli aiuti più potenti che ci vengono forniti dall’arte e dalla scienza”.