12) TENTATIVI DI RIPRISTINO DELL' EMISSARIO ROMANO. MORTE DI UN LAGO : 30 GIUGNO 1875

Dopo il ritorno del lago del Fucino ai  suoi confini naturali, avvenuto verso la fine del VI° secolo, per circa 700 anni nessuno si preoccupò più dell’emissario romano, nonostante si succedessero con regolarità impressionante  allagamenti ed inondazioni, seguiti da periodi di ritiro delle acque che trasformavano il bacino lacustre in una desolante distesa paludosa.
Il problema fu di nuovo affrontato dall’Imperatore Federico II° di Svevia che, preoccupato per le precarie condizioni di vita delle popolazioni marsicane, il 20 aprile 1240 scrive di suo pugno una lettera al Giustiziere abruzzese Baomundus Pissonus ordinandogli di procedere con celerità alla riparazione dell’emissario romano affinché “felicibus temporibus nostris, dictum opus non rimaneat imperfectum”.
Purtroppo non sappiamo fino a che punto i lavori ordinati dall’Imperatore siano passati dalla fase progettuale alla fase realizzativa e, soprattutto, se il suo intervento riuscisse effettivamente a migliorare la situazione del lago.
Certo è che qualcosa fu fatto; infatti Afan de Rivera, che ispezionò l’emissario romano nei primi anni del secolo scorso, riuscì ad identificare ed a descrivere i lavori di bonifica eseguiti dal nipote di Federico Barbarossa.
Durante il dominio Angioino il Fucino fu invece abbandonato a sé stesso,  e solo con l’avvento degli Aragonesi si registrò una nuova ripresa di interesse per la Marsica, se è vero che Alfonso I° d’Aragona ebbe l’intenzione di procedere ad una bonifica del Fucino pensando di restaurare le opere idrauliche costruite dagli Imperatori romani.
Però non possiamo stabilire né l’entità, né la data di inizio, né quella di conclusione dei lavori, ammesso che siano mai cominciati.
Nel 1630 si verificò una nuova grande escrescenza del lago a cui seguì un lungo periodo di estrema riduzione del livello delle acque, tanto che nel 1670 il Governo di Napoli ritenne opportuno avviare la formazione del Catasto  dei proprietari delle terre abbandonate dalle acque del lago; questa operazione fu completata nel 1740.
Ma appena 50 anni dopo, nel 1787, ricominciò il progressivo accrescimento del lago che proseguirà incessantemente fino al 1816 in cui la profondità del Fucino raggiunse la quota record di 35 m., ben 20 metri sopra la sua quota “normale”.
Dal 1816 al 1835 si verificò un nuovo rapido abbassamento.
E’ in questo periodo che si moltiplicarono i progetti per risolvere il problema del Fucino; alcuni francamente deliranti, come quello che prevedeva la creazione di un enorme canale che, passando attraverso il lago, collegasse il Mar Tirreno all’Adriatico.
L’unica proposta seria  venne avanzata nel 1791 dall’abate Giuseppe Lolli il quale, dopo aver effettuato accurati sopralluoghi  e dopo aver ispezionato tutta la parte percorribile dell’emissario di Claudio, sostenne la necessità di tentare di riaprirlo, restaurando la galleria e rimettendo in funzione tutte le strutture dell’incile che,  dopo quasi 18 secoli, erano ancora in piedi.
Ogni possibilità di intervento concreto, comunque, venne bloccata dalla Rivoluzione Francese e dai suoi effetti sulla situazione del Regno di Napoli.
La proposta dell’abate Lolli in ogni caso fece discutere molto, tanto che il Re di Napoli nominò come “sapiente esterno” l’architetto Domenico Fontana al quale fu affidato, senza esito, l’incarico di presentare uno studio per “i rimedi da adottare contro il lago del Fucino”.
Successivamente, nel 1821, fu chiamato l’ingegnere romano Giovanni Ferrari, con l’incarico di presentare un progetto e di fungere da arbitro fra le fazioni di quelli che volevano la scomparsa del lago e coloro che preferivano una semplice regolarizzazione del suo regime idrico.
L’ingegner Ferrari compì un sopralluogo di soli tre giorni, senza neanche esplorare l’emissario di Claudio che pure in quel periodo era completamente sgombro dall’acqua, e dopo tre anni presentò una specie di progetto di bonifica completamente inconcludente.
Nel 1824 iniziò la lunga e complessa battaglia del generale borbonico Afan de Rivera, direttore dei Lavori Pubblici del Regno delle Due Sicilie.
Egli propose il restauro dell’emissario romano e, conoscendo bene lo stato di dissesto finanziario del Regno di Napoli, predispose un programma di numerosi piccoli interventi poco costosi, ma immediatamente realizzabili ed il cui effetto fosse rapidamente verificabile.
L’opera di disostruzione della galleria sotterranea di Claudio, per la verità, non era semplice né agevole: si trattava di rimettere in funzione le varie decine di pozzi, i vari cunicoli e, soprattutto, rinforzare le pareti del tunnel che, in alcuni punti, davano ormai segni di cedimento.
Nel 1835 i lavori furono completati, facilitati anche dal continuo decrescere delle acque, al punto che tutta la galleria romana risultava agevolmente percorribile.
Ma, nello steso anno, il lago riprese a crescere con una velocità impressionante ed Afan de Rivera approfittò delle conseguenti preoccupazioni e tensioni popolari per chiedere nuovi finanziamenti.
Il suo progetto prevedeva di ricostruire la continuità dell’emissario romano, regolarizzarne la pendenza e la sezione, portandola alle dimensioni di 10,33 m2: l’obiettivo finale sarebbe stato quello di un parziale prosciugamento del lago che avrebbe assunto delle dimensioni simili a quelle raggiunte con l’intervento dell’Imperatore Adriano.
I lavori proseguirono faticosamente e lentamente, per la cronica mancanza di fondi, fino al 1845, anno della morte del coraggioso generale.
Da questa data si interruppe tutto di nuovo.
Nel frattempo l’acqua continua a salire e le popolazioni locali minacciano un’insurrezione popolare contro il Re di Napoli, Ferdinando II°: a questo punto i nuovi capitalisti fiutano l’affare, esattamente come l’avevano fiutato i loro antenati 1800 anni prima, proponendo a Claudio il prosciugamento del Fucino in cambio della proprietà delle terre sottratte alle acque.
Siamo nel 1850.
Si costituisce una società, la Compagnia Anonima Napoletana, con capitali prevalentemente inglesi e francesi, che chiede ed ottiene, nel 1852, dal Re di Napoli, la concessione per i lavori di prosciugamento del Fucino.
La C.A.N. si accolla  tutti gli oneri relativi all’opera, in cambio della proprietà del suolo prosciugato: la storia si ripete!
La concessione di tutte le terre prosciugate era una clausola abnorme rispetto all’uso corrente che prevedeva, in casi del genere, l’attribuzione del 50% delle terre ai concessionari, mentre il rimanente 50% sarebbe dovuto restare di proprietà del Demanio.
Stranamente a questa clausola, decisamente favorevole, ne corrispondevano altre decisamente pesanti e vincolanti: esse stabilivano il termine perentorio di 4 mesi dalla firma della concessione, per la presentazione del progetto generale; di 1 mese dalla presentazione, per l’approvazione del progetto da parte del Governo, e di un altro mese per l’inizio effettivo dei lavori; questi dovevano essere ultimati al massimo in 8 anni, pena la decadenza della concessione stessa.
Invece una norma giusta e saggia era quella che imponeva alla Società concessionaria di affidare i lavori ad un unico appaltatore.

Di fronte a queste condizioni i capitalisti francesi ed inglesi si rifiutano di firmare la convenzione e si ritirano, per cui la C. A. N. resta di proprietà dei soli soci italiani di minoranza i quali, pur disponendo di scarse risorse finanziarie, sono intenzionati ad iniziare l’opera di prosciugamento del Fucino, riattivando l’emissario di Claudio.
A questo punto il Principe romano Alessandro Torlonia acquista il 50% delle azioni della disastrata Società ed entra alla grande nell'affare; subito dopo, di fronte alla debolezza ed all’inconcludenza degli altri soci, fiutando che l’affare diventava veramente allettante, rileva l’intero capitale sociale diventando di fatto titolare unico ed unico beneficiario della battaglia contro il Fucino.
La motivazione ufficiale ed agiografica è che il Principe, paladino della Chiesa, vessillifero della Fede, nobile e disinteressato benefattore delle popolazioni locali minacciate dalle acque del lago, vuole lasciare ai posteri la memoria di un’ impresa nella quale erano falliti anche gli Imperatori romani!
La realtà è evidentemente ben diversa: infatti è chiara la convenienza di acquisire la proprietà di un così consistente patrimonio di terre fertilissime, concimate per milioni di anni fisiologicamente dai pesci e dalle piante acquatiche, la cui straordinaria produzione agricola  si sarebbe potuta vendere sugli affamati mercati di Napoli e Roma a prezzi fortemente vantaggiosi ed in assoluto regime di oligopolio, data la forte concorrenzialità che sicuramente le future grandi aziende agricole avrebbero avuto nei confronti delle tradizionali piccole aziende familiari della zona.
Il Fucino però non doveva essere solo ridotto; doveva essere cancellato!
Nel frattempo le clausole più vessatorie dell’accordo erano decadute da sole ed il Principe poteva così ricattare con buoni risultati l’agonizzante governo del Regno di Napoli.
Restava solo l’obbligo di ultimare i lavori in 8 anni, ma suscettibile di generose proroghe su semplice richiesta dell’appaltatore dei lavori ed a discrezione del Ministero dei lavori pubblici del Regno delle Due Sicilie.

Divenuto padrone assoluto, Alessandro Torlonia chiamò come consulente uno dei più quotati ingegneri idraulici dell’epoca, Frantz Mayer de Montricher, e gli affidò la direzione generale dell’impresa; vennero poi l’ingegnere Enrico Samuele Bermont, direttore dei lavori, e gli ingegneri francesi Brisse e De Rotrou, come vice-direttori.
Fu allestito un cantiere di proporzioni colossali; si fecero arrivare da tutta l’Europa attrezzi e macchine scavatrici mai usate prima in Italia ed alcune addirittura ancora in fase di sperimentazione; per lo scavo della nuova galleria sotto il monte Salviano fece arrivare una nutrita squadra di minatori francesi e belgi.
L’opera titanica proseguì, tra mille difficoltà, anche durante le vicende che portarono alla fine della monarchia borbonica ed all’annessione dell’Abruzzo al Regno d’Italia.
Anzi il Principe, evidentemente già ben introdotto negli ambienti politici  dei nuovi padroni, ottenne subito da Cavour il rinnovo della concessione, con gli stessi vantaggi e con una proroga “sine die” per la data di conclusione dei lavori.
Prima di dare inizio al deflusso delle acque, con un’astuzia degna di miglior causa e poco confacente al “sangue blu” vantato dal Principe, si aspettò che il livello del lago raggiungesse la massima altezza possibile e che quindi allagasse un’area quanto più vasta possibile , in modo da garantire a Torlonia l’acquisizione di diverse decina di ettari di terra in più; il contratto, infatti, parlava chiaro: il prosciugatore sarebbe divenuto proprietario di tutti i terreni sottratti alle acque !
Con questo trucco, però, tutti i Comuni rivieraschi si trovarono con diverse decine di ettari di terra in meno.
Così, ancora prima di procedere al prosciugamento, al Principe Alessandro Torlonia vennero assegnati presso Catasto provinciale 14.005,90 ettari di terra del Fucino.
Il 9 agosto 1862 le prime acque del Fucino furono immesse nel nuovo canale collettore.
Nel nuovo incile, costruito demolendo senza alcuna giustificazione l’opera degli ingegneri di Claudio, sopra l’apertura del nuovo emissario, venne eretto un padiglione per le Autorità.
Dopo che il Vescovo dei Marsi ebbe ringraziato Dio per aver protetto l’impresa del Principe Torlonia, alle ore cinque del pomeriggio, caddero gli sbarramenti e le acque si riversarono nella galleria al grido di “Viva la Madonna!, Viva il Principe Torlonia!, Viva Vittorio Emanuele!”, il quale, per la verità, non aveva fatto nulla e mai farà nulla per le popolazioni della Marsica.
Si limiterà a nominare Torlonia Principe del Fucino, con Regio Decreto del 23 dicembre 1875.
In quell’anno, infatti, il 30 di giugno, il lago del Fucino scomparve definitivamente dalla faccia della terra, dopo 13 anni di agonia in cui aveva cercato in tutti i modi, persino con nuove escrescenze, di opporsi alla violenza delle continue emissioni di acqua degli ingegneri di Torlonia.
Nel suo alveo aveva inizio la vita del Principato del Fucino.
L’incile romano, dopo essere stato studiato e copiato da Brisse e De Rotrou, fu smantellato fino all’ultima pietra, quasi non dovesse sopravvivere nessun termine di confronto con l’opera moderna appena portata a termine!
Come diretta ed inevitabile conseguenza del prosciugamento completo del lago, si manifestò ben presto quello sconvolgimento ambientale che i romani avevano previsto ed erano riusciti ad evitare rifiutandosi di prosciugare completamente il Fucino.
Infatti il lago, proprio perché poco profondo, costituiva un serbatoio di calore e di umidità per tutta la zona limitrofa, a cui garantiva un clima piuttosto mite per tutta la durata dell’anno.
L’eliminazione del suo specchio d’acqua, determinò un brusco crollo delle temperature invernali ed un aumento della secchezza del clima, provocando nel giro di pochissimi anni la scomparsa di alcune coltivazioni e danneggiando seriamente il ciclo vegetativo di altre.
Le 15.000 piante di ulivo, che da sempre prosperavano sulle pendici delle colline circostanti il lago, scomparvero nel giro di pochi anni.
I mandorli e le viti seguirono la stessa sorte, lasciando ben presto tutta la zona in una situazione di degrado ambientale ed economico senza precedenti.
Il definitivo deflusso delle acque azzerò di colpo il reddito derivante dalle attività connesse con la pesca, accentuando una miseria già resa spaventosa per il crollo della produzione dell’olio d’oliva e dal licenziamento degli operai, prima impiegati nella costruzione dell’emissario.
Miseria che per molti anni non fu possibile compensare con la coltivazione delle nuove terre, dato che i terreni sottratti al lago restarono a lungo acquitrinosi e quindi inutilizzabili per l’agricoltura.
Proprio alla fine dello scorso secolo, quindi immediatamente dopo il definitivo prosciugamento del Fucino, si ebbe nella Marsica una vera e propria esplosione del fenomeno della emigrazione.
Da questa situazione, a dir poco disastrosa, derivarono le numerose e pressanti richieste da parte dei Sindaci dei Comuni marsicani, e poi del Consiglio Provinciale dell’Aquila, che già nel 1883 chiedevano al Reale Governo d’Italia che ordinasse al Principe Torlonia di ripristinare almeno una piccola parte del lago.
Le richieste, soprattutto per l’intervento diretto del Principe sulla classe politica dell’epoca, non vennero neanche prese in considerazione.
Il 13 gennaio 1915 tutto il bacino del Fucino fu sconvolto da un devastante terremoto che rase al suolo tutti i centri abitati della zona, provocando la morte di 30.000 persone, su una popolazione residente complessiva di circa 50.000 abitanti.
Avezzano, con i suoi oltre 10.000 morti su poco più di 13.000 residenti, fu il centro più devastato.
Il sisma, il cui epicentro fu localizzato all’interno del bacino del Fucino, fu verosimilmente provocato dalla eliminazione del peso che i milioni di metri cubi d’acqua esercitavano sulle falde sotterranee e che accelerò, con effetto dirompente, il bradisismo tipico di tutte le aree lacustri.
O, forse, fu la vendetta del Dio Fucino per punire gli uomini della violenza subita.
Al termine del racconto di questa storia millenaria, mi piace riportare il testo di una lettera scritta dal saggista tedesco F. Gregorovius, in occasione di un suo viaggio nel Fucino nel 1871, vale a dire quando ormai il lago stava scivolando lentamente nel Liri:
“Io non so assuefarmi all’idea che questo solenne lago, che per migliaia di anni ha specchiato nelle sue acque questi monti severi e maestosi, debba scomparire per sempre.
Che meraviglioso specchio deve essere stato il lago nella sua integrità!
Ancora oggi esso appare così incantevole nello splendore della sera, che si può pensare, guardandolo, alle Ninfe ed alle Galatee nuotanti nei suoi flutti.
Le Ninfe presto moriranno, come i poveri pesci, e cederanno il posto alle biade ed al fieno.
Le fronti celesti dei monti che si sono specchiati finora in quest’onda favolosa, presto dovranno prendere congedo dal loro amico, il Dio Fucino.
Presso Trasacco veleggiano ancora delle barche e lì vicino si innalzano al cielo bianche nubi di vapore che vengono dalle macchine che aspirano acqua al povero lago.
Torlonia, il grande seccatore della natura, è sordo all’appello delle Ninfe.
Egli non crede più alla mitologia di Ovidio: ha denari e può sfidare gli Dei che dichiareranno fallimento.
Potesse egli almeno risollevare dal lago le città che vi sono sprofondate, Marruvium, Pinna ed Archippe!
Ma questa volta il Fucino se ne va davvero; e piange e grida e maledice nelle viscere nere del Salviano”.

 

MARRUVIUM (San Benedetto dei Marsi) : fregio del portale della Cattedrale di Santa Sabina (XIII° secolo)