3) LA GUERRA SOCIALE (91-88 A.C.)

Fra i molti problemi che Roma si trovò a dover affrontare fra la fine del II° secolo a.C. e l’inizio del I°, due furono di particolare gravità:
• il problema agrario, cioè la ricostituzione della classe dei piccoli possidenti terrieri;
• il problema dei “socii italici”  i quali esigevano la concessione della cittadinanza romana.
La connessione tra i due problemi era strettissima perché uno degli aspetti della questione agraria era se si dovessero ammettere i non cittadini romani ai benefici previsti per i cittadini di Roma.
Già Caio Gracco, eletto tribuno della plebe nel 123 a.C., aveva tentato una politica di pacificazione tra  romani ed alleati italici; Livio Druso il Giovane nel 91 a.C. propose la concessione della cittadinanza agli Italici: a lui Marruvio mandò in ambasceria l’oratore Vezio Veziano e Quinto Poppedio Silone.
Ovviamente i Marsi non facevano rivendicazioni di carattere agrario, data la scarsità delle loro terre,  ma volevano conquistarsi lo jus civitatis forse per aprire nuove vie alla loro espansione commerciale o forse perché fosse possibile l’emigrazione dal loro territorio.
Le leggi proposte da Druso non vennero accolte ; lo stesso Druso venne assassinato e fu dichiarato traditore della Repubblica chiunque osasse proporre la cittadinanza romana per gli Italici.
Fu la sollevazione di tutti i popoli della Lega Sabellica.
Animatore della ribellione, chiamata successivamente Guerra Sociale o Guerra Marsa o Guerra Italica, fu Quinto Poppedio Silone, di nobile e ricca famiglia di Marruvium.
La sede della Lega, ribattezzata “Italia”, fu fissata a Corfinium, nel territorio dei Peligni.
Due consoli, lo stesso Quinto Poppedio Silone e Caio Papirio Mutilio, e dodici pretori, fra cui i marsi Vezio Scatone e Publio Presenteio, capeggiarono la Lega, coadiuvati da un Senato di  cinquecento membri; purtroppo non conosciamo i particolari della sua Costituzione.
Si batté moneta: alcune monete del tempo hanno inciso un toro italico che abbatte la lupa romana ed altre la Vittoria che corona il toro; su tutte vi è incisa la parola “ITALIA” in caratteri osci.
L’esercito della Lega Italica poteva contare su 100.000 uomini.
Un episodio tragico accelerò l’inizio della guerra: nel 91 a.C. Servilio, proconsole del Piceno, fu inviato ad Ascoli perché informato che di lì venivano scambiati ostaggi con le città alleate.
La cittadinanza era radunata nell’anfiteatro per assistere ai giochi, cui partecipavano gli atleti di tutti i popoli sabellici; Servilio fece sospendere lo spettacolo per poter prendere la parola.
Il popolo, irritato per la tracotanza del “nemico”, insorse e la serata finì con l’uccisione del proconsole e di tutti i cittadini romani presenti in città: Roma giurò vendetta.
All’apertura delle ostilità gli eserciti romani, uno detto “marsico”, comandato da Publio Rutilio Marcio Lupo, e l’altro detto “sannita”, comandato da Sesto Giulio Cesare, si disposero ad arco, da Asculum nel nord a Casinum nel sud; arco al cui centro c’era la conca del Fucino.
Attraverso il territorio di Alba Fucens, fedele a Roma, gli Italici occuparono il valico di Monte Bove sulla via Valeria e posero sotto assedio le due roccaforti romane della zona, vale a dire la stessa Alba e Carsioli.
Gli eserciti romani urtarono più volte contro questa barriera, anche per tentare di liberare dall’assedio le due colonie.
Gli insorti riportarono ben presto eccezionali successi nel 90 a.C..
I Piceni, aiutati dai Vestini e probabilmente da altri, respinsero il tentativo di Pompeo Strabone di prendere Asculum, infliggendogli pesanti perdite ed obbligandolo a ritirarsi verso nord in direzione

della colonia latina di Firmum, dove dovette subire un duro assedio ad opera di Tito Lafrenio, la cui nazionalità, come quella delle truppe al suo comando, ci è ignota.
Anche Pinna, città vestina ma con una grande fazione filo-romana, fu assediata ed espugnata dagli stessi Vestini.
Intanto Peligni e Marsi, comandati da Publio Presenteio, lanciarono l’attacco ad Alba Fucens e, anche se non riuscirono ad espugnarla a causa di quell’ostacolo insormontabile rappresentato dalle mura di cinta della città, colpirono così duramente la Legio XIII  che il console Rutilio ne trasferì il comando da Gaio Perpenna ad un altro legatus, il famoso Gaio Mario.
I successi più grandi vennero tuttavia riportati dai Marsi.
Il loro generale, Publio Vezio Scatone, dalla loro terra li guidò verso sud lungo la valle dell’alto Liri, per effettuare un ricongiungimento con i loro alleati Pentri, e subito riportarono una sorprendente vittoria sconfiggendo il console Lucio Giulio Cesare nei dintorni di Atina  e costingendolo a ritirarsi verso Teanum Sedicinum.
La ritirata romana consenti ai Pentri di porre sotto assedio anche la roccaforte di Aesernia.
Vezio Scatone ed i suoi Marsi vittoriosi si affrettarono a ritornare nella loro terra e, nei presi di Carseoli, si scontrarono con la Legio XV di Lucio Messala riportando una vittoria schiacciante, tanto da costringere il console Rutilio a sospendere Messala e ad affidare il comando dei resti della legione al proconsole Sesto Giulio Cesare.
Ma il turno dello stesso Rutilio non era lontano.
Secondo Ovidio (FASTI; VI; 98) ed Orosio (HISTORIAE CONTRA PAGANOS; V; 18) la sconfitta e la morte del console Rutilio avvennero il giorno 11 luglio del 90 a.C..
Il console aveva spinto i suoi legionari nella Marsica per un ennesimo tentativo di liberare dall’assedio le due colonie romane di Alba Fucens e Carseoli.
Per penetrare nel territorio dei Marsi fece costruire due ponti sul fiume Telonius (identificato con il fiume Turano).
Le truppe romane furono attaccate dai Marsi di Vezio Scatone proprio mentre stavano attraversando il fiume; al termine della battaglia le acque del fiume portarono a valle i cadaveri di 8.000 soldati di Roma, compreso quello dello stesso Rutilio ferito mortalmente alla testa.
Anche i Marsi comunque subirono delle gravi perdite, compresa quella del valoroso comandante Vezio Scatone, il cui corpo fu trasportato a Marruvium  e qui, in suo onore, fu eretto un monumento funebre, probabilmente uno dei “morroni” ancora esistenti nel paese moderno.
Secondo Appiano (GUERRE SANNITICHE; I; 43) la battaglia si svolse, invece, sul fiume Liri; praticamente in quegli stessi Piani Palentini dove 13 secoli più tardi si svolse la battaglia fra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò.
Quest’ultima versione è senz’altro più attendibile per almeno due motivi: prima di tutto perché il Telonius-Torano è poco più di un torrente e quindi Rutilio non avrebbe avuto bisogno di far costruire addirittura due ponti per attraversarlo; e poi perché l’esiguità delle acque, soprattutto nel mese di luglio, non avrebbe consentito il trascinamento a valle tutti quei cadaveri.
Il Liri invece ha una portata molto maggiore, tale da giustificare entrambi gli eventi.
I romani comunque si ripresero rapidamente dalla terribile sconfitta, prepararono un nuovo esercito e, avvalendosi della partecipazione di Mario e Silla, i loro generali più esperti, passarono alla controffensiva e, dopo alterne vicende, riuscirono a sconfiggere l’esercito Italico ad Asculum ponendo così le basi per la fine del conflitto.
Mario condusse mal volentieri l’attacco decisivo contro i Marsi, avendo questi combattuto sotto il suo comando in tante battaglie, tanto che si ritirò dal conflitto facendo eleggere al suo posto il console Lucio Porcio Catone.
Silla invece fu inviato in Campania a combattere contro il contingente sannita della Lega.
Intanto il Senato di Roma, volendo porre fine alla guerra, che rischiava di protrarsi a lungo, e per evitare che altri popoli fino ad allora neutrali  scendessero in campo a dare aiuto agli insorti, promulgò la Lex Iulia de civitate danda , dal nome del console Sesto Giulio Cesare, con la quale veniva concessa la civitas romana a quei popoli che non fossero in conflitto con l’Urbe .
Dapprima beneficiarono della Lex Iulia gli Italici  che erano rimasti fedeli, o almeno neutrali, durante la guerra; poi quelli che avevano cessato le ostilità entro 60 giorni dalla  sua emanazione.
Infine ottennero la civitas tutti i popoli dell’Italia trans-padana che, per la verità, avevano fatto ben poco per ottenerla.
Questo evento ebbe un effetto dirompente sulla coesione della Lega, già in crisi dopo la dura sconfitta di Asculum.
I Marsi furono tra i pochi a non deporre le armi; isolati, però, furono ben presto cacciati dalle loro posizioni.
Le città e le fortificazioni marse furono espugnate un dopo l’altra, date alle fiamme e rase al suolo: Cerfennia, Milonia e, per ultima la capitale, Marruvium furono quasi cancellate dai legionari di Roma.
Alba Fucens, in premio per la sua fedeltà e come riconoscimento per il lungo assedio al quale era stata sottoposta dai Marsi, fu tra le prime a cui fu revocato lo status di colonia ed elevata a   municipium.
Poppedio Silone si rifugiò ad Aesernia e da qui a Bovianum per tentare un’ultima strenua  resistenza: cadde insieme ai suoi 6.000 eroi, quasi tutti marsi e sanniti.
Di lì a poco anche i Marsi avrebbero acquisito la civitas.
Finiva così tragicamente nell’88 a.C. la Guerra Marsica (o Sociale o Italica) che aveva procurato 300.000 morti nei due schieramenti, devastato città e campagne ed inginocchiato la già fragile economia dei popoli Italici.
Vincitori erano i romani, ma in realtà avevano vinto gli sconfitti perché avevano raggiunto l’obiettivo che si erano prefisso, vale a dire il diritto alla civitas romana.
Roma comunque, astutamente, per conservare a proprio vantaggio la maggioranza, invece di distribuire gli Italici fra i 35 distretti romani che votavano per i “comizi”, li iscrissero soltanto in otto.
Marsi, Peligni e Sabini furono iscritti nella tribù Sergia; Alba Fucens, già municipium, nella tribù Fabia.
L’enorme aumento dell’estensione del territorio romano, che seguì a questa trasformazione dei socii in cives, non portò nessuna modificazione esteriore alla costituzione romana.
Le città italiche, gradualmente, furono costituite in municipi romani a sistema piuttosto uniforme: vennero rette da 4 magistrati, 2 giudici e 2 sovrintendenti all’amministrazione.
Divennero così municipi  la ricostruita Marruvium, Antinum, la città–santuario di Angitia ed altre città marse.
L’istituzione dei municipi ebbe inoltre per conseguenza la definizione di limiti territoriali precisi; i municipi, infatti, non divennero possessori di beni per assegnazione fatta da Roma, come avveniva per le colonie, poiché essi non erano di fondazione romana, ma antichi stati sovrani.
Conquistata una città, Roma in genere si impadroniva di un terzo del suo territorio che veniva destinato ad ager publicus: ma così non avvenne per le città sociae o foederatae perché sarebbe stato contrario al riconoscimento della loro sovranità.
Così il Fucino ed il territorio circostante rimasero godimento comune dei Marsi i quali, in conclusione, dapprima socii di Roma e poi cives, non perdettero la loro proprietà collettiva sui boschi e sul lago: pertanto nella Marsica non si ebbe un ager publicus romano , ma un ager publicus marso.
Da questo momento la storia dei Marsi e quella di Roma correranno su due binari paralleli, nel bene e nel male.
La guerra sociale, comunque, aveva lasciato gravissimi strascichi.
Le condizioni della Respublica romana e dei privati cittadini avevano portato a leggi sulla riduzione dei debiti, tali da suscitare gravi conflitti in Roma.
Inoltre non si era affatto d’accordo sul “come” si sarebbero potuti includere nelle tribù romane i nuovi cittadini: il patriziato dominante pensava, e di fatto lo fece come abbiamo visto,  di limitare la loro influenza iscrivendoli in poche tribù; gli avversari, che avevano trovato il loro rappresentante  in Mario, volevano la loro distribuzione in tutte e 35 le tribù.
Sta di fatto che, comunque, anche se entrati nell’orbita delle 8 tribù romane, i Marsi conservarono l’autonomia negli affari interni e poterono eleggere annualmente nelle assemblee i loro sommi magistrati, anche se ai loro “Meddikes” subentrarono i quadrumviri.
Questi avevano accanto il censore, il quale annotava i nomi di ogni cittadino, i suoi possedimenti in bestiame, terre e schiavi, stabiliva i tributi da pagare ed i dazi sui pascoli; inoltre, esercitava un rigido controllo sui costumi.
Il questore aveva l’incarico della custodia del pubblico erario: un quinto delle rendite era impiegato per la costruzione di edifici pubblici o per opere di pubblica utilità.
Anche fra i Marsi esisteva la differenza di classe fra patrizi e plebei.
I latifondi terrieri delle famiglie nobili venivano coltivati dagli schiavi, sotto la direzione del fattore, e sotto l’assidua ed attenta sorveglianza del padrone che non disdegnava di partecipare attivamente al lavoro dei campi, quando le necessità lo richiedevano.
D’altronde che i Marsi fossero un popolo povero e che le famiglie marse aristocratiche mantenessero intatte le loro posizioni di predominio, anche dopo la guerra sociale, appare più volte nei testi di Cicerone e di Seneca.
Comunque, se i plebei stavano male, anche i patrizi non dovevano stare benissimo, almeno a confronto con i loro pari romani, se è vero che uno degli obiettivi della guerra era stata la possibilità di scambi commerciali e, soprattutto, la possibilità di emigrare.
I terreni coltivabili della Marsica antica erano scarsi ed insicuri; notevole era la presenza di acquitrini e poi le escrescenze del lago rendevano sempre aleatoria la possibilità di coltivare le terre rivierasche.
Infatti, come vedremo in seguito, dopo pochi anni dall’acquisizione della cittadinanza romana, i Marsi cominciarono a martellare i dirigenti di Roma con la richiesta di fare qualcosa per regolarizzare il regime delle acque del Fucino.
Le fonti antiche parlano di colture cerealicole solo a proposito di Alba Fucens, perché l’unica zona di pianura relativamente estesa e fertile era la zona a nord-est del lago e si trovava appunto nell’ager albensis: ma Alba era romana e non marsa!
Oltre alla vite, che dava un vino molto leggero ed asprigno, ben diverso dal rinomato Falerno tanto in voga sulle tavole dei ricchi romani,  i pochi lembi di terra coltivabile fornivano grano, ortaggi e legumi.
In alcune zone prosperavano i mandorli, che si adattano ai terreni sassosi, i fichi, i meli e l’ulivo.
La maggior parte del territorio marso era occupato da boschi ma il disboscamento, iniziato già nel II° secolo a.C. per esigenze agricole e di pascolo, si accentuò enormemente dopo l’entrata nell’orbita romana, data la grande richiesta di legname per la costruzione delle navi che formavano la flotta dell’Urbe.
Un altro contributo al disboscamento lo dettero gli stessi Marsi che, per la pesca, utilizzavano il sistema delle “fascine” con cui isolavano ampi settori del lago.
La risorsa principale era comunque l’allevamento di ovini e la pastorizia; anche l’allevamento di maiali doveva essere piuttosto diffuso, data l’abbondanza di querce.
Sappiamo inoltre da Persio (III; 75 – 76) di prosciutti particolarmente gustosi che un cliente marso portava in omaggio a Roma al suo patrono.
Una delle maggiori risorse fu certamente la pesca e la caccia agli uccelli acquatici, di cui si contavano ben 30 specie diverse; fra i pesci erano famose le tinche, le trote ed i barbi “ad otto pinne” che venivano inviati vivi a Roma, in tinozze colme dell’acqua del lago, per essere consumati sulle mense patrizie.
Erano inoltre molto ricercati dai buongustai romani i gamberi di fiume del Giovenco.
Le risorse naturali della Marsica erano dunque scarse, ma forse sufficienti alla non numerosa popolazione, se il regime delle acque del lago non fosse stato così incostante ed instabile da mettere in continuo pericolo le coltivazioni dei terreni rivieraschi.
I marsi conoscevano i vantaggi dell’irrigazione e della bonifica; fin dai primordi della loro storia era stato introdotto l’uso del prosciugamento dei terreni per mezzo di canali di scolo; ma questo risolveva solo parzialmente e momentaneamente il problema delle escrescenze del Fucino.
Quindi, appena divenuti "cives romani", non persero tempo e chiesero l’intervento di Roma per tentare di risolvere il loro secolare problema.